A.A.A. SVENDESI “MADE IN ITALY”

Già da tempo  l’etichetta “Made in Italy” sta venendo surclassata da quella “Made in China”. Il confine tra le due sembra davvero labilissimo. A chiunque di noi sarà capitato almeno una volta di fare acquisti pervenutici con etichetta made in China, anche se ormai, con questa crisi galoppante, non si presta più tanta attenzione alla provenienza del capo. Il fenomeno riguarda l’Italia e la Cina, rispettivamente interrellate tra loro da espliciti rapporti di negoziazione e focus 1business.

Stando alle stime attuali, il ciclone “Italian Sounding” (ovvero prodotti che suonano come Italiani), fa ascendere questo fenomeno a quote spaventose. La contraffazione è ormai un problema vecchio seppur non ancora superato; il vero punto della questione risiede nel fatto che c’è da chiedersi se il Made in Italy esista ancora, e quel poco che ne resta, come riesca a sopravvivere. Nel settore tessile numerosi sono i vantaggi dati dall’investimento in Cina; in primis, v’è da dire che le mani orientali, così abili e fini, rendono la produzione eccellente in termini di velocità e perfezione al dettaglio delle cuciture; inoltre è risaputo che la manodopera ha costi davvero stracciati. Ecco perchè riesce difficile credere che anche i più grandi e noti marchi d’abbigliamento Italiano, non abbiano nulla a che fare con la Cina.

focus 2Un fenomeno da non sottovalutare riguarda poi l’importazione di manodopera a bassissimo costo, molto diffusa negli ultimi anni: spesso gli emigranti, in primis i cinesi, che si trovano a lavorare qui in Italia producono capi di scarsa qualità, con prodotti tessili esportati dal loro paese, il tutto a stipendi miseri.

Ed ecco che ci ritroviamo, paradossalmente, innanzi a un capo che rispetta la locazione di provenienza, ma i suoi contenuti – manodopera e materie prime – sono integralmente “esteri” , non di appartenenza italiana. Mancando di queste due fasi, siamo arrivati ad un rapporto simbiotico dove non vi è più scissione tra prodotto italiano e prodotto cinese. Un articolo apparso non molto tempo fa su di un noto giornale enunciava a tal proposito (con un titolo che di per sé la raccontava lunga: “L’attacco al cuore del Made in Italy”) come il più grande errore commesso in tal campo sia stato commesso più di 15 anni fa quando nel distretto tessile di Prato gli immigrati cinesi aprirono i primi laboratori al fine di cucire abiti di bassa qualità; ma il grande abbaglio fu che poche persone purtroppo all’epoca se ne FOCUS BUONA 6curarono.

Oggi in almeno ogni città Italiana, vi sono veri e propri distretti cinesi nelle vicinanze delle stazioni, che crescono a ritmi incessanti rispetto alla nostra economia. Tutto ciò viene reso possibile grazie anche al mancato rispetto delle norme che regolano l’attività d’impresa. Un virus di “falso manufatturiero” si sta espandendo in maniera copiosa e  sta aprendo il varco ad un autentico paradiso fiscale, dove sovrana regna l’illegalità di coloro che permettono che queste “Chinatown” prendano possesso non solo delle “idee italiane”, nel campo della moda, ma anche di tutto il nostro paese, assediandolo con questa portentosa fabbrica fatta di armi sleali. Risulta dunque evidente che chi ne fa le spese, è la piccola imprenditoria che cerca con molta difficoltà di far restare alto l’onore della nostra terra , di ciò che essa offre. I piccoli imprenditori italiani attualmente sono lasciati al loro crudele destino,  quello di essere stati abbandonati, in preda alle mancate “normative” legali/fiscali ed alle burocrazie che, acquiescendono alle condizioni appena menzionate, permettono il proliferare di questi untori del

focus 4made in italy.

Non possiamo continuare a lasciare che interi settori e tradizioni italiane vadano in mano ad altri paesi. C’è bisogno di coesione, di far gruppo, affinchè le caratteristiche dei nostri prodotti cosi tanto apprezzate un tempo -come la creatività di idee e la qualità dei materiali – ritornino pilastri portanti non solo della moda e del manifatturiero, ma di tutta l’economia italiana.

a cura di Alessia Viviano