L’universo etereo dei Cocteau Twins

vc ccCon i Cocteau Twins, discepoli diretti di un’evoluzione repentina del post punk, una nuova dimensione sonora, il dream pop, fece la sua comparsa in Scozia e da là a poco avrebbe influenzato tanti stili musicali e gruppi dagli anni’80 in poi.

La definizione di “dream-pop” per il genere che loro stessi hanno ideato e che annovera, tra gli altri, gli inglesi Slowdive, i Pale Saints e i Lush, per citarne alcuni. Senza di loro band come Curve, Sugarcubes o i Verve, forse, non sarebbero mai esistite. Ma, in realtà, la musica dei Cocteau Twins ha molte radici, dal folk celtico alla psichedelia, dal gotico alla tradizione araba, dalla classica all’ambient music.

Non si tratta di “canzoni”, nell’accezione tradizionale, ma di una miscela di melodie, accordi, dissonanze, echi, riverberi, su cui fluttua libera la voce di Elizabeth Fraser. Una voce cristallina, che, spaziando lungo suggestive escursioni di registro, alterna sussurri e litanie, cantilene infantili e grida angosciate. Il risultato è un clima claustrofobico di grande effetto, una sorta di trance ipnotica, in cui possono coesistere il peggior incubo e la visione più celestiale. Seppur figlio della psichedelia, il dream-pop non insegue “paradisi artificiali” della mente, ma scava nei recessi più profondi dell’inconscio, alla ricerca della spiritualità.

I Cocteau Twins nascono a Grangemouth, Scozia, come un trio: Elizabeth Fraser (voce), Robin Guthrie (chitarra e tastiere), Will Heggie (basso). Il loro esordio avviene nel 1982, con il singolo “Peppermint Pig”, subito seguìto dall’album Garlands. L’impronta di fondo è il gotico pomposo di Joy Division e, soprattutto, Siouxsie, di cui la giovane Fraser è grande fan. “Da ragazzina ero la punk più dolce che si potesse incontare – racconta -. Ho sempre avuto le braccia piene di tatuaggi di Siouxsie e dei Sex Pistols, ma mi sono sempre vergognata di mostrarli in pubblico. Probabilmente, la gente pensava che stavo sempre con le maniche lunghe perché ero una eroinomane.”. Lo spirito della “regina della notte” aleggia sulla distorta “Wax and wane” e sulla cupa “I’m not”. Tanto che i critici più maligni arrivano a definire Fraser “una Siouxsie in sedicesimo”. Ma il disco conquista subito il pubblico underground britannico, grazie al suo sound ipnotico e suggestivo.
Heggie abbandona presto la band, mentre tra Guthrie e Fraser si stabilisce anche un solido legame sentimentale (i due avranno una figlia, Lucy, nel 1989). E’ da questo duo che nasce “Head over heels”, trascinato dalla vorticosa “In our angelhood” e dalla frizzante “Sugar hiccup”, destinata a diventare uno dei loro motivi più celebri.

Le sonorità sono sempre più rarefatte, e scaturiscono da fluide progressioni di accordi e dal fresco soprano di Fraser, che frammenta testi liberi da regole grammaticali. “Le storie delle mie prime canzoni erano tutte metaforiche – racconterà la vocalist in seguito-. Erano frutto dell’inconscio, delle mie paure, che col tempo si sono attenuate”. Non si è mai attenuata, invece, la sua timidezza e la sua ritrosìa verso tutto ciò che è “star-system”: difficile vederla in video o sulle copertine dei dischi, quasi proibitiva un’intervista. Anche questo contribuirà a rendere i Cocteau Twins un gruppo di culto per il pubblico della new wave.
Ma in quel periodo la formazione britannica non rinuncia a sperimentare, e lo fa soprattutto con una moltitudine di Ep, in cui si possono trovare chicche come lo spiritual “Hitherto” o la ninnananna lisergica “Pepper-tree”. A dare forza al sound, oltre alla voce di Fraser, sono le tastiere lugubri di Guthrie, gli arpeggi eterei della chitarra e l’incedere mozzafiato della batteria.

Ingaggiato il percussionista Simon Raymonde, la band indovina il disco della consacrazione con Treasure (1984). Un lavoro elegante e complesso, in cui Fraser insegue le orme di vocalist d’avanguardia come Laurie Anderson e Meredith Monk, e la band amplia lo spettro delle sue influenze musicali. Si passa così dalle danze orientali di “Ivo” al barocco di “Lorelei”, dal jazz-rock di “Pandora” all’abulia psichedelica di “Otterley”. Tutto l’album è fortemente intriso di miti medievali, favole gotiche ed esoterismo. Una fiamma di pura follia onirica pervade i brani, che alternano vertigini e visioni, surrealismo e spiritualità, in un clima magico, dominato dai gorgheggi eterei di Fraser. ” Elizabeth non ha alcun rispetto per gli arrangiamenti miei e di Simon – scherza Robin Guthrie -. Arriva sul più bello e comincia a cantare in tutti i momenti che riteniamo sbagliati. E il risultato è molto migliore”.Ergo oltre al perfetto “Treasure”,cosiglio caldamente anche “Garlands”,magari non spiazzante,ma comunque vetrina del lato più etereo di questa band scozzese.
Inoltre,e qui voglio le fanfare,è indispensabile che voi ascoltiate quel capolavoro che è “Lullabies To Violaine”..altro non è che la raccolta di (quasi) tutto il materiale non presente negli Lp della band, e credetemi sulla parola se vi dico che trattasi di musiche di una bellezza abbacinante. Del resto non è un mistero che diversi Ep contenessero alcune tra le cose migliori che i Cocteau abbiano mai prodotto. Play, ed emozione unica nel poter ascoltare in sequenza “Sunburst And Snowblind”, “Pepperment Pig”, “Aikea-Guinea”, dalle implosioni dark/siouxsieggianti del periodo “Garlands”, passando per il folk etereo di “Treasure” fino al proto trip-hop dell’ultima fase di carriera.

Poi i singoli, le alternative version e chi ne ha più ne metta. Dovete solo ascoltare e fare silenzio, come in un museo, a una prima teatrale, in una chiesa, così da godere dello splendore pornografico di “The Spangle Maker”, dell’accoppiata “Tiny Dynamine”/”Echoes In A Shallow Bay”; viene quasi da piangere tant’è la grazia. Ancora: il concept grafico di V23, il packaging e tutto il resto, uno dei rari casi in cui marketing e musica di qualità remano nella stessa direzione. “Lullabies To Violaine” è la giusta celebrazione di una band immensa.

Di Antonio Elia
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