MEDICINA TRADIZIONALE VS. MEDICINA ALTERNATIVA
Tutt’oggi la guerra tra la medicina alternativa, usualmente definita “omeopatica”, e la classica medicina tradizionale è ancora aperta. La prima, conosciuta fin dal V secolo, è stata reintrodotta nel XIX secolo dal medico tedescoHahnemann ed è attualmente criticata aspramente dai tradizionalisti, i quali l’hanno ironicamente definita “stregoneria” ed “acqua fresca”; la seconda, ovvero quella tradizionale, per gli omeopati è causa di moltissime morti “sospette” all’anno, dati i relativi effetti collaterali dovuti ai principi attivi presenti nei farmaci. Insomma non vi si riesce a venirne a capo: abbiamo due mondi contrapposti che viaggiano su binari paralleli.
Ciò che sappiamo di certo è che in entrambi i casi vi sono delle proprietà benefiche cosi come dei limiti. Partendo dalle critiche verso l’omeopatia, le maggiori vengono mosse per quanto concerne la sfera delle sostanze, ovvero “la mancanza” di principi attivi che renderebbe – secondo molti studiosi- qualsiasi terapia omeopatica inefficace. Tale questione deriva dal fatto che il pilastro portante dell’omeopatia è il suo approccio olistico che rifiuta integralmente i principi basilari della chimica, occupandosi per di più di questioni personali e di stile di vita; invece la medicina convenzionale tende a focalizzarsi più sulla sintomatologia. Ma vi sono ben altre differenze tra i suddetti due mondi in campo medico. Tanto per elencarne alcune, per la medicina alternativa l’approccio alla patologia avviene prescrivendo cambiamenti di abitudini e di stile di vita, o somministrando sostanze naturali in una quantità fortemente diluita; al contrario, nella medicina tradizionale si interviene –a fronte di una sintomatologia – con l’utilizzo tempestivo di farmaci mirati per svariate patologie. Un’altra notevole differenziazione consiste nel fatto che nell’omeopatia si tende ad utilizzare una sola soluzione/terapia, che cercherà di riportare lo stato psico-fisico del paziente all’equilibrio originario, con il risultato di attenuare o curare una parte o tutti i disturbi contemporaneamente.
<<Dove alcuni rimedi della medicina tradizionale falliscono, l’omeopatia riesce a dare delle risposte>>: ha replicato nel corso di un importante dibattito recente, Stevenson, uno dei grandi sostenitori della branca, nonché presidente di un’azienda leader in prodotti omeopatici, ad un agguerrito medico convenzionalista milanese, che invece dal canto suo affermava che <<la scientificità dell’omeopatia è già stata contraddetta dal numero di Avogadro: quando si supera una certa diluizione omeopatica all’interno del rimedio omeopatico non è presente più nessuna molecola; inoltre non vi sono molecole specifiche che rendano riconoscibile un prodotto omeopatico rispetto all’altro>>.
Di contro però le statistiche parlano e confermano l’interesse crescente nei confronti della «medicina dolce»: soltanto in Italia, negli ultimi 15 anni, il numero di pazienti che si affidano all’omeopatia – peraltro oggi praticata da moltissimi medici in oltre 50 nazioni diverse – è incrementato del 65%,una percentuale da non trascurare. È chiaro che basandosi le scienze in questione su principi completamente opposti, non potranno probabilmente mai co-esistere; ma veniamo al fulcro della questione, il malato. Nella bufera interminabile creatasi da anni ed anni, coloro che risultano essere i più confusi sono proprio i pazienti. Tra questi, alcuni pensano che l’omeopatia sia una sorta di potenziale business e altri vedono nella medicina convenzionale una miscela di terapie che intervengono sopprimendo spesso e volentieri i sintomi; dunque, come può il paziente scegliere tra la medicina ufficiale razionale, che si affida alla scienza occidentale, e l’omeopatia, che si affida a terapie alternative del corpo e della mente, tenendo in considerazione anche l’aspetto psicologico?
Probabilmente la risposta risiede proprio nell’integrazione dell’una nell’altra. Sarebbe auspicabile che invece di perder tempo in sterili ed inutili battaglie, a suon di convegni, tra le due “correnti di pensiero”, si cercasse una collaborazione; in questo caso a guadagnarci sarebbero i pazienti: un giusto mix probabilmente ridurrebbe la tempistica di guarigione.
A cura di Alessia Viviano