L’Accademia pontaniana: il fiore all’occhiello della cultura quattrocentesca

La storia della cultura del Regno di Napoli nel Quattrocento si intreccia con la vicenda della monarchia aragonese: il primo re aragonese, Alfonso il Magnanimo (re dal 1442 al 1452), protettore del Panormita e del Valla, può essere cultura 11considerato il capostipite della nuova cultura napoletana, che vive un ambizioso momento creativo e di sperimentazione durante il lungo regno di Ferrante (1452-94). Durante gli anni del dominio aragonese a Napoli vi fu appunto un sorprendente rigoglio della cultura, in primis della letteratura: vari umanisti, si erano raccolti nell’Accademia fondata da Antonio Beccadelli, il Panormita, chiamata Porticus Antonia, “Portico di Antonio”, e guidata, dopo la sua morte (1471), dal Pontano (in seguito, infatti, l’Accademia prenderà il nome di pontaniana).
L’amore degli umanisti per tutti gli aspetti della vita e del linguaggio classico li indusse anche ad adattare i loro nomi a modelli antichi o a nobilitarli in forme latineggianti o grecizzanti in vari modi: quest’uso era del resto favorito dalla relativa instabilità che i nomi delle persone e delle famiglie avevano nella società del tempo. La scelta di nobilitare e di cultura 12innalzare la propria identità porterà poi addirittura all’assunzione di nomi totalmente fittizi: un uso che sarà appunto peculiare delle Accademie. Ricordiamo soltanto alcuni tra i più notevoli esempi di nominazione umanistica:
Panormita: palermitano, nome assunto, come abbiamo precedentemente sottolineato, da Antonio Beccadelli;
Poliziano: nativo di Montepulciano (Mons Politianus), nome assunto da Angelo Ambrogini;
Petrarca: forma nobilitata di Petracchi;
Platina: nativo di Piadena, nome assunto da Bartolomeo Sacchi;
Giulio Pomponio Leto: nome tutto fittizio modellato su nomi romani antichi;
Ficino: nativo di Figline in Valdarno;
Sabellico: nativo della Sabina, nome assunto da Marcantonio Coccio, nato a Vicovaro;
Pierio Valeriano: nome assunto da Giovan Pietro Bolzani dalle Fosse: fu il Sabellico a chiamarlo Pierio (da Pierides, “Muse”).
Sebbene Napoli, a differenza dell’Italia del Nord, non avesse una lingua cortigiana “comune” da cui prendere le mosse, e la base linguistica fosse quella del dialetto napoletano, commisto talvolta a modelli toscani (a tal proposito ebbe un ruolo rilevante la prestigiosa Raccolta Aragonese inviata a Ferdinando d’Aragona da Lorenzo il Magnifico), la fioritura letteraria fu sorprendente: opere come l’Arcadia del Sannazzaro riuscirono ad avere una diffusione sempre più capillare, tanto che perfino autori stranieri, come lo spagnolo Garcilaso de la Vega, guardarono al modello napoletano con profonda ammirazione. Altre opere poi, come i trattati politici e morali del Pontano, tra cui menzioniamo almeno il De principe (Il principe), il De fortitudine (La fortezza), il De Fortuna (La fortuna), il De prudentia (Sulla prudenza), riscossero un’influenza dominante per la successiva trattatistica politica cinquecentesca (si pensi a opere celebri come il De principatibus o Il principe di Machiavelli).
A cura di Francesca Paglionico